La doppia vita di Giovanni Donvito

Una storia particolare quella di Giovanni Domenico Donvito, conosciuto semplicemente come Giovanni Donvito. Non si tratta di un santermano, ma si può dire che anche Santeramo non rimase immune al suo passaggio. Dai quotidiani dell’epoca emerge una vicenda che abbraccia cronaca rosa, nera e giudiziaria.

Il giorno di San Valentino del 1867 a Gioia del Colle Maria Palazzo diede alla luce un maschio, a cui venne dato il nome Giovanni Domenico, figlio di Francesco Donvito.
A vent’anni, nel 1887 Giovanni si sposò con la sedicenne Giuseppa Pugliese, figlia del proprietario Marziantonio Pugliese di Putignano. Negli anni seguenti ebbero anche 4 bambini.

Ma la sua immagine non è affatto così limpida come può sembrare. Le voci dell’epoca dicono che era noto il suo interesse per altre donne, e si raccontavano molti altri fatti avvenuti a Santeramo, a Barletta, a Gallipoli e Roma, in cui avrebbe molestato delle donne e ne sarebbero derivate questioni.

Francesco Netti, 1882 circa, Giovanni Donvito, Gioia del Colle
Francesco Netti, 1882 circa, Giovanni Donvito, Gioia del Colle

A Gioia svolse l’attività di fotografo, e ancora oggi possiamo ammirare un suo scatto del 1882, quello del pittore Francesco Netti (ringrazio Ubaldo Fraccalvieri per la cortese integrazione).
Giovanni Donvito dal 1894 in poi si recava a Santeramo per fare il fotografo. Una volta all’ufficio di polizia urbana ci fu un rapporto contro di lui, perchè corteggiava diverse ragazze, facendo portar loro delle lettere passionali e spacciandosi per scapolo: fra le ragazze a cui dedicava attenzioni c’era una tale Tangorra.
Il Dott. Giuseppe Simone conobbe personalmente Giovanni Donvito, il quale per un periodo stette a Santeramo, dove alloggiava al convento. Molestava le donne che andavano nei pressi del convento ad attingere acqua. Ci fu un reclamo e Giuseppe Simone diede disposizioni per far cessare quella situazione inconveniente.
Il potatore Michele D’Ambrosio vide delle donne inveire contro Giovanni Donvito, e dissero di essere state da lui molestate con parole sconvenienti.
Proprio una donna di Santeramo raccontò con le sue parole un incontro casuale con Giovanni Donvito. Cecilia Massafra incontrò Giovanni nei pressi del convento e gli chiese di darle una brocca di acqua. In questa semplice scena di vita quotidiana lui le disse, mettendole una mano sulle guance: “Se eri zitella, ti davo tutta la piscina; ma, siccome sei maritata, mi arrangerei lo stesso“. Cecilia gli rispose per le rime, dicendogli: “Se tieni sorelle, mandale a casa mia, che ho un buon marito che potrebbe dar loro soddisfazione“.
Un altro santermano, Leonardo Giannini, confermò gli stessi atteggiamenti di Giovanni Donvito a Santeramo, dichiarando di aver saputo che Giovanni aveva provato ad avvicinare una giovanissima ragazza dicendo di essere scapolo e facendo promesse di matrimonio.

Sono gli ultimi anni del diciannovesimo secolo. Giovanni era un funzionario pubblico e secondo alcuni era comunque ben visto a Gioia del Colle, dato che lavorava al municipio svolgendo la mansione di vice-segretario presso il comune.
In questi anni Giovanni frequentava la famiglia D’Aprile, che aveva una masseria a quasi 5 km da Gioia. Si invaghì di Rosa D’Aprile, consciuta da tutti come Rosina, sorella di Giangiacomo D’Aprile, che veniva descritta come una “bellissima giovinetta“. E nonostante Giovanni fosse sposato iniziò anche a scriverle delle lettere passionali. Questa situazione fece traboccare il vaso, e le questioni d’onore vennero risolte con un delitto, di cui Giovanni Donvito fu la vittima.

Famiglia Donvito - Pugliese
Famiglia Donvito – Pugliese

L’anno successivo si svolse il processo, in cui emersero al grande pubblico numerosi particolari circa la vita privata della vittima, fornendo il ritratto di un Don Giovanni… che scriveva anche poesie.

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Corriere delle Puglie del 24/02/1898, p. 2

Misterioso assassinio
Un vice segretario scomparso
Indagini – Scoperta del cadavere – Per amore?

DA GIOIA DEL COLLE 22, – Giovanni Donvito, vice-segretario di questo comune, era un simpatico giovanotto, generalmente beneviso e stimato; poco che trentenne e ammogliato da pochi anni, egli era padre felice di due amori di bimbi, e conduceva vita ordinata e tranquilla non turbata mai da nubi ne da sospetti.
Sabato scorso, verso le ore undici antimeridiane, il Donvito rincasò, essendo sceso in quel momento dall’ufficio, e disse alla moglie di preparargli il costume da caccia, poichè era stato invitato ad una partita dl caccia alla masseria di un tal Giacomo suo vecchio amico. La moglie non esitò un istante a compiacerlo, non sospettando certamente che era quella l’ultima volta che eIla vedeva il suo sposo.
Tosto ch’egli ebbe indossati gli abiti da caccia, iI Donvito si accommiatò dalla sua famigliuola con la giovialità che gli era solita, e se ne andò, dirigendosi effettivamente verso la masseria del D’Aprile, situata a circa tre miglia da Gioia. A due chilometri dal paese il Donvito s’imbattè in un amico; il quale gli chiese ove fosse diretto.
Alla masseria D’Aprile“, rispose egli, “vò a sciupare un po’ di piombo inutilmente“.
Si strinsero la mano e si lasciarono. Da quel momento tutto è mistero; nessuno ha più visto il povero giovane, ne v’ha persona che possa fornire particolari sul raccapricciante delitto commesso con feroce freddezza.
La povera moglie del Donvito, vedendo ch’egli non rincasava nè II sabato, nè la domenica seguente, si recò da quanti conoscevano iI marito per averne contezza, e ben presto Gioia fu piena di questa voce sinistra: il vice-segretario era scomparso.
Immediatamente le autorità comunali si misero in moto.
Una fuga era inammissibile.
Il Donvito era un galantuomo addotta prova, nè v’era da temer la mínima irregolarità nella gestione pubblica affidatagli. Egli adorava la sua famiglia, quindi anche altre ipotesi cadevano, se pure potevano per un istante affacciarsi venivano meno.
II brigadiere dei carabinieri si pose tosto alla ricerca dello scomparso e prima di tutto, rivolse i passi verso la fattoria di Giacomo D’Aprile, che doveva essere il punto di partenza delle susseguenti eventuali indagini.
Allorché i carabinieri giunsero alla masseria, il D’Aprile era occupato ai lavori campestri, e la sua famiglia, nella massima tranquillità, non poteva dare alito al benché minimo sospetto.
Allorché il brigadiere dei carabinieri chiese ai D’Aprile del Donvito, questi si guardarono in faccia trasognati.

– “Il Donvito? E chi mai l’ha visto?“. Dissero sorpresi; “E’ da tanto tempo che non viene più qui!
– “Ma, sabato è venuto?
– “No“.
– “No? Eppure, lasciando la casa ha detto che veniva qui…
– “Ha detto una bugia.
– “Ma, pensateci bene; è mai possibile che non sia venuto qui sabato se un amico l’ha incontrato poco lungi da qui?
– “Eppure così è, noi non l’abbiamo visto“.

Il brigadiere non poteva darsi per vinto. Egli chiamò un ragazzotto che stava li presso e prese a interrogarlo per vedere di giungere a capo di qualche cosa, ma quel ragazzotto era scemo – o fingeva d’esserlo – e il bravo brigadiere non poté saperne nulla e dovette ritornarsene a Gioia senza avere appurato nulla.
La disperazione della povera mogIie del Donvito era terribile; nell’angoscia dell’attesa ella correva pel paese come impazzita chiedendo di suo marito a quanti incontrava.
Ma il mistero durava, né c’era modo di venir a capo di nulla.
Finalmente oggi una terribile notizia si sparse in paese.
Alcune guardie campestri di Turi. essendo di fazione in campagna, avevano scoperto in fondo ad un burrone una figura umana, boccheggiante e irrigidita.
Scesi con grandi precauzioni qui gli agenti rinvennero il cadavere d’un uomo, in istato d’incipiente putrefazione, dal cranio completamente fracassato. Era Giovanni Donvito, l’infelice vice segretario di Gioia del Colle.
E’ inutile ch’io mi soffermi sull’impressione che fece nella cittadinanza la triste fine del Donvito e le tragiche circostanze della sua morte, come pure è inutile ch’io vi dica il dolore inconsolabile della vedova, che sembra inebetita.
Le più strane congetture si facevano sull’efferato assassinio e se ne cercava invano la causale allorchè una perquisizione giudiziaria nel domicilio dell’assassinato ci portò d’un tratto in pieno romanzo.
Si rinvenne un epistolario amoroso tra il Donvito e la sorella dl Giacomo D’Aprile, bellissima giovinetta che viveva alla fattoria.
In seguito a questa inaspettata scoperta l’autorità giudiziaria procedette all’immediato arresto di tutta la famiglia d’Aprile.
Le indagini procedono alacremente e speriamo riescano ad assodare completamente la responsabilità di questo truce delitto, ch’è certamente l’epilogo di un triste romanzo d’amore.

tratto e adattato dal Corriere delle Puglie del 24/02/1898, p. 2

Corriere delle Puglie del 27/02/1898, p. 2

Giovanni Donvito assassinato!!

DA GIOIA 25 (Lux) – Con l’animo addolorato, faccio seguito al mio telegramma inviatovi ieri sera. Un’altra orribile scena di sangue mi tocca registrare nella cronaca gioiese.
Una mano assassina ha rapito crudelmente all’affetto della povera mamma, a tre fratelli, all’unica sorella, alla disgraziata moglie ed a quattro figliuoletti, ai parenti, ai numerosi amici, all’intera cittadinanza gioiese, il benamato e apprezzato, l’indimenticabile Giovanni Donvito, fu Francesco Donvito, d’anni 31, il nostro fotografo, l’integerrimo e assiduo vice segretario comunale!!
Egli scomparve da Gioia fin dal giorno 13 c.m. ed in abito da caccia disse alla moglie e a parecchi che I’ incontrarono per la strada, che sarebbe andato e trovare il suo compare Stefano D’Aprile, con il quale teneva appuntamento in campagna. Da quel momento il disgraziato non é stato più riveduto; e dopo due giorni di ricerche infruttuose, il di lui cadavere fu rinvenuto nella voragine denominata di Cassineto, contrada Canale, tenimento di Turi.
Si afferma che il risultato dell’autopsia eseguita in Turi dai dottori Antonio Castellaneta di Vincenzo, da Gioia, medico della casa penale di Turi e dal sig. Guglielmo Di Donato, primario medico anch’egli della nostra provincia, sia quella di escludere la caduta accidentale, nel fosso dove fu rinvenuto il cadavere, causa della morte. Vuolsi invece che la morte sia dovuta a vere sevizie, le quali abbiano prodotto peritonite e meningite.
Intorno al collo, ai polsi ed ai malleoli il cadavere presentava i segni chiarissimi di pressioni di mani che l’avessero tenuto fermo al suolo!
Queste sevizie fanno supporre che !’abbiano torturato per qualche ora se questo é vero, con raccapriccio nasce il sospetto che non solo siano stati in parecchi ad ucciderlo, ma che abbiano adoperato i mezzi, per assassinarlo, senza produrre esternamente al corpo delle ferite che apparentemente fossero mortali. E’ però sicuro che le lividure e le escoriazioni trovate in quasi tutto il corpo, danno la prova che vi é stata colluttazione e resistenza da parte della povera vittima, e che i suoi carnefici – più forti di lui – si siano beati nella lunga sua agonia!
– Come dissi a mezzo del telegrafo, il trasporto funebre del Donvito riuscì commovente, straziante, imponente. Appena si divulgò la voce che si riportava il cadavere da Turi, fu un movimento generale verso Via Bari.
Alle ore sedici e tre quarti il cadavere fu ricevuto a tre chilometri circa lontano dal paese dalla forza pubblica, da numerosissimi amici, i colleghi imp. municipali, dalla società. I figli del lavoro, dall’egregio ff, sindaco, una folla immensa e dalle confraternite.
Alle 17 sfilò il corteo diretto dagli amici del defunto. La salma fu posta sopra un ricco carro funebre col tiro a 4 dell’impresa Celiberti, i cui cordoni erano tenuti dal segretario comunale signor Di Donna, dal sig. Donatantonio Iacobellis e da altri colleghi.
Seguivano i due fratelli Enrico Donvito e Pasquale Donvito, lungo le vie v’era una folla mesta, i balconi rigurgitavano di persone d’ogni ceto.
Era una intera città in lutto che rendeva l’ultimo tributo d’affetto al caro estinto e che fida nella giustizia, perché possa essere severamente e giustamente condannato il colpevole o i colpevoli.
– Furono arrestati: Giangiacomo, Giuseppe e Stefano fratelli D’Aprile fu Giacomo (compare dell’infelice Donvito) e diverse persone addette al loro servizio, delle quali mi sfugge al momento il nome.
– Un encomio di cuore va dovuto al pretore ed alle autorità di Turi, ed ai nostro ff. sindaco sig. Bruno perché con zelo e prontezza fecero quanto dalla legge era prescritto.
Addosso al cadavere furono rinvenute: lire venticinque; la catenella senza l’orologio, la padroncina delle cartuccie e la borsa da cacciatore. Il fucile a retrocarica fu trovato spezzato in due, mancava la piastrina del grilletto e la coreggia era tagliata dal coltello.
– Si nota che fin oggi invano si è atteso il giudice istruttore, quantunque la famiglia abbia telegrafato ripetute volte anche al procuratore generale del Re.

tratto e adattato dal Corriere delle Puglie del 27/02/1898, p. 2 

Corriere delle Puglie del 26/05/1899, p. 3

Corriere Giudiziario
Corte di Assise di Bari
Udienza del 25 maggio

Presidente Squittieri – Giudici Soria e Noya – P.M. Cipollone – Cancelliere Dell’Uva.
La P.C. fa istanza che gl’interrogatori vengano fatti separatamente. Non opponendosi la Difesa, vengono allontanati i detenuti meno il Giuseppe D’Aprile.

Interrogatorio di Giuseppe D’Aprile

Egli dice che se avesse sospettato dell’attentato del Giovanni Donvito all’onore della sorella, lo avrebbe ammazzato in mezzo alla Piazza, e poi si sarebbe costituito. Non vedeva il Donvito da vari mesi, ed ignorava la relazione del Donvito con sua sorella Rosina D’Aprile. Non sa nulla e si dichiara innocente del delitto attribuitogli. Ricorda che il Donvito avesse minacciato la madre e la sorella, che si rifugiarono in casa D’Aprile, la cui madre era inferma. La notte del 19 dormì alla Masseria, al primo piano, il fratello Stefano dormì nel magazzino con Pietro Sabato, Lillo dormi nel lamione. Vide il Donvito l’ultima volta il 18, che lo andò a trovare al macello; egli e il fratello Stefano conservavano buoni rapporti col Donvito, a cui fu proibito l’accesso in casa D’Aprile per le questioni avvenute fra costui e sua madre, rifugiatasi in casa dell’imputato. Ricorda che la lettera del Donvito, mostratagli dal giudice istruttore diceva dell’invito di suo fratello Stefano a recarsi alla Masseria; ma egli di questo non sa nulla.
Il fratello Giangiacomo spesso dormiva a Gioia quando accompagnava la famiglia o quando doveva prendere misure o eseguire lavori agrari. Dà, a richiesta della P.C., notizie sulla carne di maiale che essi spedivano allo zio in Palagianiello in occasione delle feste. La giornata del 19 stette a sorvegliare le donne nel Canale, ove lavoravano; la sera, dopo aver sorvegliato la governatura degli animali; si trattenne nel lamione della paglia. Salito poi di sopra verso un’ora di notte col fratello Stefano e col Sabato ed altri, per dispensare il mangiare ai salariati, che discesero poi giù. Egli aveva invitato il 18 due amici a recarsi a caccia nella Masseria; i due amici si chiamano Giorgio e Mastrorocco. Ma per un cane che Giorgio perdette, non si recarono più a caccia, dove si dovevano trattenere tre o quattro giorni.
Il giorno 19 alla Masseria si recò certo Antonio Lagravinese, e ciò seppe dalle donne che si trovavano a lavorare. Il Parco dello Scudo e lontano dalla Masseria D’Aprile oltre un chilometro; è luogo di caccia frequentato.

Interrogatorio di Pietro Sabato

Nega recisamente di saper nulla e di aver preso parte al delitto di cui gli si vuole affibbiare la cooperazione immediata. Egli vedeva il Donvito, quando veniva in città dalla Masseria; egli era abitualmente alla Masseria, recandosi a Gioia ogni 15 o 20 giorni, e il Donvito mancava dalla Masseria da parecchio tempo, ne vi andò il giorno 19. Non dette schiaffo al ragazzo Milano, che in tempo precedente al giorno 19; la sera del 19 dormi nel lamione con Stefano D’Aprile, dopo di aver cenato su con Stefano e Giuseppe D’Aprile e con Pugliese. La madre e la sorella dei D’Aprile e la Donvito partirono dalla Masseria per Gioia al calar del sole del giorno 19, accompagnato da Giangiacomo, che si rimase a Gioia. Il martedì di Carnevale fu portata della carne di maiale a Gioia per vendersi da Stefano D’Aprile, che vi rimase a sorvegliare la vendita. Ricorda che la sera del 19 la signora Teresa Pinto, madre dei D’Aprile, prima di partire con le Donvito per Gioia, ordinò a Pugliese di recarsi a Palagianello da suo cognato a portargli dei regali pel Carnevale. Il Pugliese verso l’1.30 dopo la mezzanotte prese le robe da portare a Palagianello e partì a quella volta verso le 2.30 o le 3 pomeridiane.
A domanda dell’on. De Nicolò, risponde di non ricordare se il Lagravinese fossesi recato alla Masseria nel giorno 19.
A domanda dell’ avv. Squicciarini, risponde che è al servizio dei D’Aprile da oltre cinque anni, e quel giorno si faceva la scatena per preparare un giardino di agrumi. La serata del 19 venne occupata a pulire le stalle, governare gli animali e preparare lo strame per la notte. Peppino D’Aprile leggeva il giornale, poi si andò a cena, e quindi a letto.

Interrogatorio di Tommaso Lillo

E’ il pastore delle pecore appartenenti ai D’Aprile; giunse alla Masseria, mentre Giacomo d’Aprile partiva con la madre, la sorella e la Donvito alla volta di Gioia. Poi quando i padroni salirono, egli fece lo stesso e prese le fave pel pranzo, ridiscese e dopo mangiato si addormentò. Non vide il Donvito, nè è vero che disse le parole attribuitegli dal Milano: “sta zitto. se no, ce no andiamo carcerati“. Egli dormiva nella mangiatoia, e sotto a lui il Ferrulli; perciò non poteva scendere senza pestare il Ferrulli. E’ stato al servizio dei D’Aprile per circa 11 mesi.

Interrogatorio Giangiacomo D’Aprile

L’accusa e assolutamente infondata, perchè da nessuno dei fratelli mai seppe di quello che ad essi si vuole attribuire. Seppe della relazione fra il Donvito e la sorella dal giudice istruttore, che gli mostrò le lettere. Se avesse saputo prima di tali fatti, avrebbe fatto giustizia, poichè certe cose che toccano l’onore, non si lavano che col sangue. La quistione avuta col Donvito avvenne perché la bambina del Donvito che si trovava in casa D’Aprile venne mandata a riprendere dalla madre, la quale mandò a dire che la bambina non poteva stare in casa d’Aprile. L’indomani la bambina tornò, ma egli la fece accompagnare a casa. Di qui l’alterco fra lui e il Donvito, dichiarando sproporzionata la causa alle minacce col revolver fattegli dal Donvito. Mai pronunziò parole dì minaccia contro il Donvito. Intromessesi persone autorevoli, egli desistette dall’idea di sporgere querela, anche per non rovinare la famiglia, facendogli perdere il pane. L’alterco cominciò perchè il Donvito pretendeva che la sua bambina assolutamente venisse riammessa in casa d’Aprile. Egli pose come condizione dalla desistenza, che il Donvito non ponesse più piede in casa sua.
La sera del 18 accompagnò la famiglia Diomede in città; la mattina del 19 tornò a Gioia, e vi tornò nuovamente la stessa sera per accompagnare la famiglia e la Donvito; dopo esaurite le faccende domestiche, si recò al caffè, ritirandosi verso le 9.30 e le 10. A casa c’era la sorella del Donvito, cenarono, e ognuno andò a letto.
Conosce la lotta fra il Donvito e la famiglia pel progettato matrimonio fra il Vito Diomede e l’Adelaide Donvito. Non nasconde la sua meraviglia del nome di feroce impostogli, pur avendo sempre dato prova di umanità con tutti, perfino con lo bestie. La sorella Rosina non era mai stata a scuola; aveva imparato qualche cosa dalle due sorelle maggiori, tanto che egli ignorava persino la sua calligrafia, quando il giudice istruttore gli mostrò le lettere della Rosina. Ricorda di aver assistito il padre del Donvito al suo letto di morte, come i suoi figli non fecero. Fu lui ad ordinare la gita del Pugliese a Palagianello.
A domanda dell’avv. Squicciarini, racconta che nel settembre aveva malata la madre di tifo; in uno di quei giorni seppe delle liti in casa Donvito, dove si recò invitato e seppe di un calcio che il Giovanni Donvito aveva assestato alla sorella e storto con annerimento un dito a sua madre. La lite continuò in casa D’Aprile, dove tutti i Donvito si recarono; così seppe che Giovanni Donvito accusava sua sorella Rosina di far da mezzana fra l’Adelaide Donvito e il Diomede. Per questo fatto o pel disturbo che procurò alla madre la scenata dei Donvito, proibì al Giovanni Donvito l’accesso in casa. Il Donvito gli scrisse due lettere, che egli non lesse e restituì; una di esse però venne letta dal Diomede.
Alle 12,30 si sospende l’udienza.

Alle ore 13.17 si riprende l’udienza. Continua l’interrogatorio di Giangiacomo Aprile, che afferma i doni inviarsi il zio a Palagianello, sia perchè proprietario della masseria da essi tenuta in fitto, sia per essere egli stato per i D’Aprile come un padre. L’ordine di mandare Pugliese venne dato da lui e da sua madre e da altri.
Si dà lettura degl’interrogatori di Giuseppe d’Aprile, di Pietro Sabato, di Tommaso Lillo, Giangiacomo D’Aprile, dei defunti Stefano d’Aprile e Vitantonio Pugliese.

La parte lesa

Giuseppina Pugliese, vedova di Giovanni Donvito. Una ventina di giorni prima Giuseppe D’Aprile recossi in sua casa a portare una beccaccia, invitando suo marito Giovanni Donvito a recarsi alla Masseria, ma suo marito si rifiutò. Giorni dopo Stefano D’Aprile verso le 6 del mattino depositò un fucile e disse che avrebbe pranzato col Donvito, ma poi non andò più a pranzo. Suo marito, dopo aver mangiato si recò al macello per trovarsi il compare Stefano, e al ritorno disse alla moglie dell’invito di recarsi il giorno seguente alla Masseria D’Aprile. Infatti dopo qualche titubanza il Giovanni Donvito, nuovamente invitato dallo Stefano d’Aprile, si decide di recarsi alla Masseria, e dopo aver baciato il bambino e la moglie, manifestò altre titubanze pel pericolo che correva, arrendendosi all’invito. Allora la moglie cercò dissuaderlo, presentandogli a posizione di famiglia e raccomandandogli di pensare ai suoi quattro figli. L’indomani non tornò; essa ne domandò a Stefano d’Aprile, che molto riluttante sali sopra rispondendo negativamente alle domande se il marito si fosse recato alla Massoneria da lui invitato. Allora pensò subito che i D’Aprile gli avessero ucciso il marito.
Dice che origine delle questioni fu l’essersi saputo dai d’Aprile l’amoreggiamento fra suo marito e la Rosina D’Aprile. Narra il fatto dell’Adelaide Donvito e delle quistioni sorte in famiglia; come suo marito, chiamato, recossi in casa d’Aprile per andare a portare del denaro al medico curante, e di qui un biglietto di Giangiacomo D’Aprile che si lamentava che il Donvito si fosse recato in casa malgrado il divieto. Racconta il diverbio avvenuto sul Municipio, per la relazione con la sorella, e come il Giacomo d’Aprile si avventò contro il marito, che per difendersi estrasse la rivoltella.
Dietro domanda dell’avv. Squicciarini conferma varie posizioni, che non risultano dal processo scritto, circa le visite di Giuseppe e Stefano D’Aprile, i dubbii del marito e le sue preoccupazioni per l’invito ricevuto ripetute volte, il conteno sospetto dello Stefano la mattina del 20, il grido che gli sfuggì: “avete assassinato mio marito“, e finalmente circa la frase detta dal Donvito, che avrebbe cioè domandato conto al Giangiacomo d’Aprile del biglietto respinto, e le traccie delle unghiate alla gola riportate dal marito nell’alterco col Giangiacomo d’Aprile. Tutte queste risposte nuove della parte lesa, vengono inserite a verbale.
Si dà lettura della querela di Maria Palazzo fu Angelo, madre del morto Donvito, assente per malattia.

I testimoni

Comincia la sfilata dei testimoni a carico, ma se ne esaurisce uno solo per oggi.
Pietro Donvito di Pasquale. La mattina del 20 seppe che suo cugino Giovanni era sparito, e volle recarsi al fondo Parco dello Scudo, ed incontrò il cognato che gli disse che i D’Aprile non avevano visto Donvito. Narra fra l’altro che certo Pasqualone avesse detto: “se Donvito è stato ucciso da D’Aprile il cadavere sta nella grava di Frassineto, perchè con i D’Aprile sta Pietro Sabato, detto il Re della grava“. La domenica, 20 si scontrò con Giangiacomo e si vide guardato in certo modo, tanto che disse ad amici, quando seppe che il cugino non si trovava, la sua convinzione che autori del delitto fossero stati i D’Aprile.
A domanda dell’on. De Nicolò, si segnano a verbale queste nuove circostanze messe fuori dal testimone.
Il teste rettifica la seconda parte della sua deposizione scritta, che cioè non ci furono busse in famiglia Donvito per l’affare Diomede.
L’avv. De Nicolò domanda come spiega le due circostanze omesse nella deposizione scritta.
Teste. “Mi sarà sfuggito!
Si toglie la udienza alle ore 15.45.

tratto e adattato dal Corriere delle Puglie del 26/05/1899, p. 3

Corriere delle Puglie del 27/05/1899, p. 3

Corriere Giudiziariao
Corte di Assise di Bari
La causa D’Aprile

Udienza del 20 maggio
Presidente Squittieri – Giudici Soria e Noya – P.M. Cipollone – Cancelliere Dell’Uva.
La difesa oggi é al completo. La P.C. invece ha un mutamento; in luogo dell’avv. Vito Petruzzellis – De Ruggiero, assentatosi per ragioni professionali che richiamavano la sua presenza a Napoli, sono a difesa delle ragioni della signora Giuseppina Pugliese vedova Donvito gli avvocati Papalia di Bari e Nucci di Casarano.
Si dà lettura di una perizia, da cui risulta che la distanza fra la masseria D’Aprile ed il burrone, dove fu trovato il cadavere del Donvito, è di quattro chilometri e meno circa, e che la viabilità relativa e pessima; che il cadavere fu trovato a circa 30 metri di profondità dal piano della campagna; che esso non potè essere gittato dall’alto, ma che, per collocarlo dove fu trovato, sarebbe occorso che si fossero fatte calare con fune due persone almeno, le quali non avrebbero potuto risalire, se non tirate almeno da tre altri uomini robusti.
Si dà pure lettura di altri atti generici, fra cui il verbale di autopsia cadaverica.
Si riprende l’esame dei testimoni di accusa.
Laura Montrone. – E’ serva della madre del Donvito: nel settembre 1897, per incarico di Rosina d’Aprile, portava dei fiori ed uova ad Adelaide Donvito: se ne avvide Giovanni Donvito che tentò percuoterla, forse perché sospettò che ella facesse da mezzana fra sua sorella Adelaide e il giovane Diomede.
Nicola Girone. – Nel 21 febbraio 1898, per incarico di Pietro Donvito, domandò a Vito Diomede, se fosse vero che avesse detto al D’Aprile che Giovanni Donvito aveva avuto tre giorni di permesso dal Municipio: il Diomede fu negativo.
Vito Gaspare Diomede. – Egli da pochi giorni ha sposato la sorella del defunto Donvito. – Dice che egli si accorse che il Donvito, benché ammogliato, amoreggiava con la signorina Rosina, perlocchè ne avvisò la famiglia Donvito, ohe lo pregò di non parlarne a Giangiacomo D’Aprile.
Senti dire che la questione fra il Donvito e il Giangiacomo D’Aprile fosse avvenuta, sia perché esso teste amoreggiava con la Donvito, sia perché il Donvito amoreggiava con la D’Aprile. – Seppe che il Donvito, sospettando che la serva facesse da mezzana, trascese a percuotere la propria madre, la sorella e la serva. – Nel 19 febbraio vide il Donvito, vestito da cacciatore, avviarsi alla campagna, e nella sera seppe che il Donvito era stato visto nel Parco dello Scudo. – Il Giangiacomo, avendo saputo che doveva essere arrestato coi suoi, lo pregò interporsi per non fare arrestare sua madre. – A domanda di un giurato, aggiunge che l’Adelaide ritornò dalla masseria nella sera del 19, perché ella attendeva il ritorno di sua madre da Napoli. Egli dapprima ritenne innocenti gli imputati: ora no. Appartenendo ormai alla famiglia Donvito, egli cercò di saper notizie del processo:
Pasquale Donvito, fratello del defunto Giovanni. Prima che egli deponga, la difesa degli imputati chiede che Pasquale, Pietro ed Enrico Donvito, fratelli del defunto Giovanni, depongano senza giuramento perché denunzianti e interessati. – E cosi vien deliberato dalla Corte.
Il Pasquale Donvito conferma le sue denunzie, in cui si parla dei primi sospetti fatti, e spiega come, appunto perché il fratello Giovanni erasi recato alla masseria D’Aprile – circostanza negata dagl’imputati – egli é persuaso della colpa di costoro. Sette giorni prima del 19, egli seppe dalla madre dei D’Aprile come costei avesse scoverto lettere che suo fratello scriveva alla Rosina D’Aprile: la madre dei D’Aprile temeva che ciò si apprendesse nella propria famiglia, per evitare guai. Nel mattino della domenica 20 febbraio, gli si disse sul Municipio che il suo fratello Giovanni aveva colà detto che quel giorno recavasi a Bari.
L’avv. Balenzano fa rilevare alcune contradizioni fra le diverse dichiarazioni del Pasquale Donvito.
A domanda della parte civile, il Donvito dice essere vero che regalò pochi soldi al teste Ferrulli, ma ciò perché questo ragazzo doveva comprare del pane, e bisognava non far ritardare il ritorno del giudice istruttore a Gioia.
Pietro Donvito, altro fratello del defunto – Seppe che il fratello corteggiava la Rosina D’Aprile, ne parlò a lui, ma quegli negò, mentre Giangiacomo lo affermava, e sosteneva che la lite sul Municipio era avvenuta perché il Giovanni Donvito, malgrado ordini in contrario, era tornato in casa D’Aprile. – Il teste aggiunge che, se avesse saputo essere veri gli amori del fratello con la Rosina, egli pel primo lo avrebbe biasimato.
Enrico Donvito, altro fratello del defunto – Giangiacomo D’Aprile, con cui era in istretta amicizia, gli scrisse lamentando che suo fratello Giovanni Donvito si comportava da maleducato. Poi seppe della sparizione, ed espone come ebbe a convincersi che il fratello fosse stato vittima di vendetta dei D’Aprile. Con accento energico qui esclama: “Se fossi stato certo della colpa di mio fratello, io il primo gli sarei stato contrario per difendere il decoro della mia famiglia“. Aggiunge che dall’istruttore gli furono mostrate le lettere d’amore scritte da suo fratello alla Rosina D’Aprile.
Luigi Santoro, pittore. – Trovavasi sul municipio di Gioia, quando avvenne la lite tra Donvito e Giangiacomo. Udì il Donvito gridare: “Giù le mani“. Apertasi la porta, vide il Donvito che impugnava un revolver, e diceva: “Esci fuori dell’ufficio“. Il D’Aprile andò via. Il Donvito, domandato, non volle dire il motivo della lite. Quando il Donvito si era chiuso col D’Aprile nella camera, disse agli uscieri: “Non fate qui entrare alcuno“.
Domenico Stalloni, messo comunale:
Uniforme al precedente testimone, spiegando che il Giovanni Donvito, impegnando il revolver, inseguiva il D’Aprile, che era uscito dal Gabinetto del sindaco. Egli accompagnò il D’Aprile sino alla porta delle scale.
Gennaro Minci, impiegato comunale:
Uniforme ai precedenti testi, aggiungendo che egli entrò nel gabinetto del sindaco nel momento in cui il Donvito mise mano ad un revoler, impugnandolo prima contro il D’Aprile e poi contro esso testimone. Il D’Aprile andò via, e il Donvito gli mostrò l’arrossimento ai polsi, e gli disse che era stato efferato dal D’Aprile. Egli non gli domandò il motivo della lite, ma era pubblica la voce in Gioia che il Donvito amoreggiasse con la Rosina D’Aprile.
La difesa fa notare che all’istruttore il teste disse invece, che, quando egli entrò nel Gabinetto sindacale, il D’Aprile trovavasi ad un passo di distanza dal Donvito, intercedendo fra essi il tavolo della giunta il che escluderebbe che il teste abbia visto il Donvito nell’atto di svincolarsi. – Il Presidente osserva che gli apprezzamenti bisogna riservarli per la discussione.
Si dà visione al teste di molti manoscritti al processo, ed egli alcuni li riconosce di carattere del Donvito, altri no: questi manoscritti son costituiti da lettere e poesie.
Tommaso Ivone, contadino. – Quando il D’Aprile, dopo la lite, scendeva dal municipio, diceva fra sè: “Col tempo farà la morte di Don Vincenzo Taranto” – Il Presidente gli fa notare che nella dichiarazione scritta è detto: “Ti farò fare la morte di Vincenzo Taranto“, ma il teste rafferma che le parole udite furon quelle che oggi ha riferite, e che filma pronunziate abbasso alla scala, verso sera.
Vincenzo Giura, mannaro. – La sera del 19 febbraio egli con Giangiacomo D’Aprile, con la madre e sorella di costui e con Adelaide Donvito si recò sopra uno sciarabà dalla masseria D’Aprile a Gioia. – Il giorno seguente andò alla masseria, donde tornò alle 9 antim. a Gioia con Giuseppe e Stefano D’Aprile. Stefano gli dette una pezza di formaggio e 4 tordi, incaricandolo di portarli a casa di Giovanni Donvito, cosa che egli fece consegnando il tutto alla moglie del Donvito.
A domanda del giurato sig. Varrese, dice che ciò fece per incarico di Stefano, spiegando che questi regali si era soliti farli alla famiglia Donvito in tutte le festività.
Ad altre domande, spiega la topografia dei locali della masseria, dove dormivano i contadini colà addetti.
A domanda del giurato sig. Mastromarino, risponde che egli, nel tornare la sera del 19 a Gioia, non vide il Donvito nel Parco dello Scudo, che sta a metà strada fra Gioia e la masseria; senti dire che lo avesse veduto la serva.
Domenico Nettis, ex guardacampi. – Nel 21 febbraio si recó alla masserie coi Reali Carabinieri e udì Giangiacomo dire che aveva saputo dal Diomede che il Donvito aveva preso tre giorni di permesso dal municipio. – Conferma che, affacciatosi sul burrone, vide giù il cadavere del Donvito, che gli parve colà collocato e non precipitato.
A domanda della parte civile, dice che ieri dal beccaio Romano seppe che questi aveva parlato con un tale Martellolta, e che trattavasi dell’ora in cui avrebbe visto il Giangiacomo e il Sabato nel 22 febbraio.
Cataldo Ascatigno, cavapozzi. – Per ordine del brigadiere, fu legato e calato nella grava Frassineto: il cadavere era supino, vestito da cacciatore, col fucile vicino. Ritiene che fu colà collocato e non gettato.
Il Presidente fa notare che nella dichiarazione scritta è detto invece: “Escludo e assolutamente che avessero potuto trasportare il corpo del Donvito nella grava e metterlo in detto punto, perché la e medesima é profondissima e pericolosissima, e, solo per poter scendere io con e gli altri, dovemmo far uso di grosse funi, essendo impossibilitati a scendere“. – il testimone risponde che ha dovuto equivocare il giudice nel dettare la dichiarazione.
A domande della difesa, risponde che egli, che è un cavapozzi, ritiene impossibile si sia disceso di notte nella grava, perché pericolosissima anche di giorno: anche con qualche baule, ci sarebbe stato da sfracellarsi.
Francesco Paolo Mola, guardacampi. – Insieme con suoi amici riuscì a scovrire che il cadavere del Donvito era nella grava: affacciandosi sopra un pianerottolo della grava, si vedeva una gamba del cadavere. Tali indagini furono fatte per incarico dei superiori, su sospetti comunicati da un tal Marziantonio Pugliese.
Eustachio Montenegro, guardacampi. – Uniforme al precedente, spiegando che si vedeva una sola gamba perché il sole non era a piombo, ma col sole a piombo il cadavere si vedeva intero.
Vito Pellicoro, contadino. – Anch’egli, legato ad una fune, fu fatto discendere nella grava insieme con altre due persone, cioè con l’Ascatigno e con un tale Giuseppe Surico. Crede che quattro o cinque persone potevano aver fatto calare colà il cadavere, escludendo che il cadavere fosse stato gittato o calato da solo con funi: occorreva anche la discesa di qualche persona, e ciò si poteva fare si di giorno che di notte.
La voce pubblica ritenne dal primo momento che i D’Aprile fossero colpevoli, per urti procedenti. –  Aggiunge che, per la posizione angusta de’ luoghi, non più di quattro persone potrebbe manovrare sulla grava per farvi discendere qualcuno.
La difesa fa leggere la dichiarazione di lui, donde risulta che occorreva per la discesa la massima precauzione per non precipitare e restar vittima, essendo la grava profondissima
Giuseppe Surico, contadino. – Anche lui scese nella grava, ed anzi fu lui che legò ed estrasse il cadavere, il quale giaceva supino con la testa reclinata a destra, il braccio destro disteso in linea orizzontale e il pugno chiuso, la gamba destra in linea retta e la sinistra in linea obliqua.
L’occhio destro mancava: la guancia destra fratturata.
Gli abiti erano in buono stato.
Descrive com’era conformato il fondo della grava. Ritiene che il cadavere non fu nè gettato nè calato da solo con fune, ma collocato.
A domanda di un giurato, risponde che animali, come volpi e cani, potrebbero scendere sino ad un certo punto della grava poco distante dalla sommità, ma non sino in fondo. Dice che molti sapevano l’esistenza della grava.
L’accusato Sabato, dichiara che, pur sapendo esistere quella grava, non aveva avuto mai occasione di vederla. Si toglie l’udienza alle ore 16.40.

tratto e adattato dal Corriere delle Puglie del 27/05/1899, p. 3

Corriere delle Puglie del 31/05/1899, p. 3

Corriere Giudiziario
Corte di Assise di Bari
La causa D’Aprile

Udienza del 30 maggio 1899
Presidente Squitieri – Giudici Soria e Noya – P.M. Cipollone – Cancelliere Dell’Uva.
Essendosi ieri esaurito tutto il testimoniale a carico, si passa al discarico:
Nicola Gagliardi. – Un anno prima della morte di Donvito, a lui riuscì, essendo intimo amico del Donvito, di leggere una lettera amorosa diretta a costui, nella quale una donna gli diceva che ella avrebbe lasciato il marito per unirsi a lui e lo consigliava a sua volta ad abbandonare la moglie. Questa lettera fu consegnata aperta al Donvito, che si dolse col postiere d’averla ricevuta aperta. In seguito il Donvito più volte gli disse che sarebbe andato via da Gioia.
Il 21 febbraio, la moglie del sig. Giovanni Iacobellis gli domandò della suddetta lettera. In tal modo il teste ebbe a sapere che colei che aveva scritto al Donvito era moglie al di lei figlio, residente in Roma, e che tra costei e il Donvito eravi stata relazione illecita. L’anno prima il Donvito, nel fare un viaggio circolare, andò pure a Roma, ed egli suppone che andò a trovare la moglie del Iacobellis.
Egli si portò a riferire tutto ciò al Pretore, prima che si fosse trovato il cadavere, per consiglio di un tal Nicastro.
Giovanni Aloè, guardia municipale di Santeramo. – Il Donvito dal 1894 in poi si recava a Santeramo per farvi il fotografo. Una volta all’ufficio di polizia urbana ci fu un rapporto contro il Donvito, perchè cimentava diverse ragazze, facendo portar loro delle lettere amorose e spacciandosi per scapolo: fra le ragazze ricorda che c’era una tale Tangorra.
Filippo Mastrorocco, proprietario. – Nel pomeriggio del 12 febbraio fu invitato egli ed il Giacomo Giorgio dai D’Aprile per una partita di caccia alla masseria, a cominciare da quel giorno e durare due o tre giorni; ma egli non potè accettare perchè il cane da seguito scappò e dovettero andare a cercarlo. – Dice che i D’Aprile erano di ottima condotta.
Maria Michela Grandieri. – Nel 19 febbraio stette a lavorare alla masseria D’Aprile: il Giuseppe D’Aprile sovrastava ai contadini ed aveva contegno allegro e regolare. All’ora del tramonto terminarono di lavorare, andarono alla masseria, e di là al paese.
Dopo che scapolarono, incontrarono un tale Antonio Lagravinese detto il Chiacchierone, del Casale, che disse di venire dalla masseria.
Natalizia Milano. – Uniforme alla precedente; a domanda risponde che i lavoranti erano pagati il sabato e alla masseria, alla calata del Sole.
Antonio Lagravinese alias Chiacchierone. – Il 19 febbraio all’ora di scapolare fu alla masseria D’Aprile, dove trovò i tre fratelli D’Aprile e Pietro Sabato. Dai tre D’Aprile fu premurato a restare, essendo egli in relazione con loro da una trentina di anni. – A domanda risponde che incontrò le donne che scapolavano, e con una di esse ebbe a scambiare qualche parola. Ciò a circa 23 ore all’italiana.
Nicola Ceppaglia, cocchiere daziario. – Il 20 febbraio alle ore 8 circa del mattino Giuseppe D’Aprile e Stefano D’Aprile vennero dalla masseria a Gioia, e sdaziarono del formaggio e delle ricottelle.
Luigi Scelzi, barbiere. – Il 20 febbraio alle ore 10 circa del mattino il Giuseppe D’Aprile stette a sbarbarsi da lui: aveva contegno regolare.
Filomena Ciquera. – Stette il 19 febbraio a lavorare alla masseria D’Aprile, dove prima di calata di sole fu pagata con le altre, eppoi scapolarono.
Antonia Antonicelli. – Uniforme alla precedente, se non che ella, per la premura di recarsi a Gioia, non passò prima dalla masseria, e fu pagata all’indomani.
Francesco Sciscio, proprietario. – Il Giovanni Donvito era di buona condotta, ma discolo con le donne. I D’Aprile sono buonissime persone.
Giacinto Iacobellis. – Il Donvito turbava la pace di parecchie famiglie. E qui racconta, che egli andò a Roma, fu alloggiato in casa di suo figlio per 15 giorni quale amico.
Egli non solo sedusse la moglie di suo figlio, ma poi in Gioia si vantò di volerla condurre in America.
Dopo gli capitò anche una lettera, da cui risultava che era proprio vera la tresca interceduta tra sua nuora ed il Donvito, perlocchè egli scrisse a suo figlio: “Se il Donvito viene a Roma, e torna in tua casa, gettalo dalla finestra“.
Domenico Nittis. – Il Giovanni Donvito era un po’ pizzicante di donne. Seppe dalla moglie di tal Marchitelli, in casa Romano, che suo marito l’aveva battuta, perché geloso di illecita tresca che ella avrebbe avuto col Donvito.
Leonardo Addobbo. – Il Donvito era ritenuto per un cimentatore delle donne. Un giorno in cui nell’aprile c’era l’istruttore a Gioia, vide che i fratelli D’Aprile, nel corridoio della pretura, si tenevano vicini al Ferulli ed al ragazzo Milano, ed egli vide quando i Donvito diedero dei soldi al ragazzo Milano. Poco dopo incontrò il ragazzo, che risaliva con un pezzo di pane, e il ragazzo, da lui domandato, disse che del fatto non sapeva nulla, ma che i Donvito volevano egli dicesse ben altrimenti di ciò che sapeva. – Quel giorno c’erano pure Liborio Posa e Domenicangelo.
Fu presente quando il Marchitelli minacciò la moglie, per le illecite relazioni che aveva avute col Donvito.
Giuseppe Domenico Ciliberti, falegname. – ll Donvito era persona rispettosa, ma per diceria del paese era ritenuto donnaiuolo. Conferma la dichiarazione del Gagliardi, a proposito della lettera da Roma in cui una donna maritata scriveva al Donvito, che dovevano abbandonare i rispettivi coniugi, per vivere insieme.
Giovanni Martellotta. – E’ cugino dei D’Aprile. Dice che il Donvito era dedito alle donne, e si raccontano molti fatti avvenuti a Santeramo, a Barletta, a Roma e Gallipoli, nei quali fatti avrebbe il Donvito molestato delle donne, e ne sarebbero derivate questioni.
A domanda della parte civile, dice che egli ha pure provveduto per fornire le notizie del discarico.
Francesco Santojemma. – Dice che il Donvito andava appresso alle donne, ed in proposito riferisce che, quando fu ucciso D. Giovannino, sua moglie gli disse: “Hanno fatto bene, perché andava cimentando tutti“. Ed anzi sua moglie gli aggiunse, che il Donvito aveva tentato di sedurre anche lei, passeggiando vicino alla casa, sorridendole, chiedendo informazioni sul conto suo, e ciò perché egli, il marito, trovavasi a Bari.
Vincenzo Serra, carceriere. – Dice che il Donvito era amante delle femmine, e, dopo la morte, si seppe in famiglia che egli aveva attentato all’onore di parecchie famiglie. Riferisce in proposito qualche circostanza particolare, cioè che una volta essendosi recato dal Donvito la serva di lacobellis, egli allontanò la moglie, eppoi alla serva, che erasi recata per l’ingrandimento di una fotografia, offri un anello: ella capi a che tendeva, e fuggi. Riferisce anche altre circostanze di un fatto simile avvenuto a Barletta.
Antonio Venisti, proprietario. – Il Donvito era un lavoratore, ma un po’ amante delle donne, ed in proposito riferisce un altro fatto riferitogli da un tal Falcone. A domanda, il teste dice di essere largo parente dei Donvito.
Falcone Cusimano. – Nel salone di un tale Simone, del Donvito diceva che aveva avuto rapporti illeciti con una donna. Su contestazione col Simone Avara, il teste dice che ciò avvenne più di 4 anni fa.
Leopoldo Lentini. – Dopo la morte del Donvito in paese si diceva: “Il Donvito questa morte doveva fare, perché andava molestando molte famiglie tanto a Gioia che altrove“. – Ii teste seppe da sua moglie, che la serva del locobellis era stata pure molestata dal Donvito.
Giovanni Petrera . Il Donvito, che ora donnaiuolo, avanzava 15 lire da una tale Antonia Seraniga: gliele richiese, ma questa non gliele potè dare perché affamata. Lui rispose: “Te le abbono, se tu cedi alle mie voglie“.
Filippo Falcone. – Conferma che il Donvito era un femminiero.
La difesa esibisce una fotografia, e il testimone dice che il Donvito, avendo fatto la fotogralia d’una fidanzata di esso testimone in atteggiamento scandaloso, aveva mancato alla parola data di non esporla in Gioia, perlocchè egli se ne dolse; fu perciò ché sciolse ogni rapporto con la sua fidanzata.
Dott. Giuseppe Simone di Santeramo. – Conosceva il Donvito, il quale stette a Santeramo, dove alloggiava al convento; il Donvito molestava le donne, che andavano colà ad attingere acqua, perlochè vi fu reclamo ed egli dié disposizioni per far cessare questo inconveniente. Senti dire che anche una guardia daziaria, che gli aveva parlato di ciò, faceva lo stesso del Donvito.
Antonio Modugno, pretore di Gioia. – Egli raccolse I’interrogatorio di Stefano D’Aprile, e non si accorse se avesse scalfitture alla mano sinistra. – Ha avuto occasione di conoscere il Giangiacomo D’Aprile, o lo ritiene d’opinione ottima, come d’altra porte cosi lo ritiene la cittadinanza. A domanda del procuratore del re, risponde che l’opinione pubblica ritiene che la sparizione del Donvito avvenne per opera dei D’Aprile, ma esclude che vi abbia avuto alcuna parte il Giangiacomo.
Vincenzo Vasco. – Il Donvito era una persona dabbene, ma si altercava spesso con la moglie. –  A domanda: non ha mai udito dire che il Sabato fosse denominato il re della grava; sa che per una trentina d’anni è stato alla masseria Minei.
Serafina Marzella. – ll Pietro Donvito fratello del defunto, voleva indurla a deporre il falso contro i D’Aprile, avendo egli saputo che tra Giuseppe D’Aprile ed essa testimone correvano relazioni di amore. – La teste dice che ella è cantoniera ferroviaria, e che il Pietro Donvito impiegato anche ferroviario e suo superiore.
Domenico Diomede. – I D’Aprile son buone persone, ritenute incapaci di commettere un reato: e tale è l’opinione pubblica.
Michele D’Ambrosio, putatore di Santeramo. – A Santeramo vide che delle donne inveivano contro il Donvito, e dicevano di essere state da lui molestate con parole sconvenienti. Ed un giorno ad una tale Cecilia Massafra fece delle proposte galanti, dicendole che egli era più bello del. marito di lei e che poteva quindi essere accontentato nei suoi desiderii.
Cecilia Massafra. – A Santeramo il Donvito, pregato di darle una brocca di acqua, le disse, mettendole una mano sulle guance: “Se eri zitella, ti davo tutta la piscina; ma, siccome sei maritata, mi arrangerei lo stesso“. – Ella gli rispose per le rime, dicendogli: “Se tieni sorelle, mandale a casa mia, che ho un buon marito che potrebbe dar loro soddisfazione“.
Leonardo Giannini. — Riferisce gli stessi incidenti provocati dal Donvito a Santeramo, eppoi seppe che il Donvito aveva cimentato pure una figliola, dicendo di essere scapolo e facendo promesse di matrimonio.
Domenico Taranto, contadino. – Da alcuni Putignanesi, che conoscevano la grava, senti dire, che soltanto chi avesse gettato il cadavere nella grava poteva sapere che stesse colà. – A domanda, dice che sabato p. p. ha visto che il teste Ferrulli e Milano ed il padre del Milano si trattenevano a discorrere col sig. Pietro Donvito, qui in Bari.
Giuseppe Lamanna. Dice che il ragazzo Milano é tanto stupido, da non aver saputo indicare neanche il padre. E il fratello disse: Mio fratello, da una caduta che fece, si è mezzo istupidito.
Domenicangelo Losito. – Sulla pretura un tale Addabbo domandava al ragazzo Milano: “Chi ti ha dato il pane?” Il Milano: “Il signorino“. – Il D’Addabbo soggiunse: “Che cosa devi tu deporre?“. – Ed il ragazzo rispose: “Ciò che mi ha detto il signorino”.
Liborio Posa. – Uniforme al precedente testimone.
Michele Debellis. – Una sera sentì questionare il Donvito con la moglie, ingiungendole di rincasare.
Vito Fanelli. – Da Liborio Posa seppe ciò che il Posa ha oggi deposto nel dibattimento.
Pietro Donvito. – Attesta che il teste da pochi mesi sta al servizio di Marziantonio Pugliese, suocero del Donvito. Su istanza della difesa, è richiamato il f.f sindaco Bruno, per attestare. se il precedente testimone sia o no persona dabbene, ed egli attesta che e persona dabbene ed é proprietario.
Vito Leo. – A lui il Ferulli confessò che per verità egli non aveva veduto affatto il Donvito alla masseria, e che, pertanto lo aveva affermato, per quanto riuscì ad essere cosi messo in libertà.
Giacomo Pisani. – Anche a lui il Ferrulli confessò di non aver visto affatto il Donvito alla masseria.
Carmela Montesano. – La signorina Rosina D’Aprile era una giovanetta buona, religiosa e ingenua.
Filomena Capozzi. – Uniforme alla precedente.
Leonardo D’Aprile. – Conosce il Pasquale Romano. Unitamente al Martellotta si recò al Romano per interrogarlo sull’ora in cui questi aveva visto il Giangiacomo D’Aprile: ed il Romano rispose che fu prima del mezzogiorno.
Giuseppe Perrone, brigadiere dei Reali Carabinieri di Giovinazzo. – Ha conosciuto il Giangiacorno D’Aprile; lo ritiene buona persona ed incapace di commettere reati.
Ciò ritiene anche l’opinione pubblica.
Prof. Vincenzo De Romita. – Nella lunga carriera de insegnamento ha avuto per alunno Giacomo D’ Aprile. – E’ stato uno dei giovani specchiati, che ha avuto. Dopo è rimasto con lui relazione scientifica. Ritiene assolutamente il Giangiacomo di indole mitissima, incapace di concepire il male.
Nicola Covelli. – La famiglia D’Aprile era intima della famiglia Donvito. Il Francesco Donvito, padre, era avvocato del Francesco D’Aprile, e costui gli mandava ogni anno del grano.
Matteo Giura. – Stefano D’Aprile il giorno 19 febbraio fu sempre alla Masseria ad attendere ai fatti suoi, ed aveva un contegno regolare. Il Giangiacomo fu anche in campagna come pure il Sabato, che fu a lavorare col teste.
Rocco Ciquera. – Il 19 aprile fu a lavorare alla masseria D’Aprile: Stefano D’Aprile si recò sul lavoro dopo mezzogiorno. Conosceva il Giovanni Donvito: lo ha trovato qualche volta nel Parco dello Scudo, e propriamente 5 o 6 mesi prima dell’avvenimento. Non ha mai inteso appellare il Sabato Re della Grava. I D’Aprile sono di ottima condotta: il Donvito donnaiuolo.
Maria Albanese. – Era alla masseria D’Aprile: e la sera del del 19 febbraio andò a letto a 24 ore e non vide chi andò alla Masseria; fu prima arrestata, ma poi rilasciata,
Giuseppe Guida. – Fu alla Grava e vide il cadavere quando fu estratto. Vide il fucile, e riscontrò con altri che la correggia era tagliata di fresco. Ciò fece anche notare al Brigadiere dei Carabinieri -e immediatamente si suppose che Scannabugia, che era disceso nella Grava, fosse stato l’autore del taglio della correggia. Richiamato il Brigadiere dei Reali Carabinieri, questi afferma di aver riscontrato il taglio fresco della correggia. Però egli ritiene che ha potuto essere tagliata la correggia da quelli che gittarono il fucile, per evitare che potesse essere fermato nella caduta.
Giovanni Vasco. – Andò alla Grava e gli fu impedito di scendere, adducendosi che non ne aveva il coraggio. Riscontrò che la correggia era tagliata di fresco; la ritiene tagliata anche in quel momento, ed esclude che poteva esserlo da 3 giorni. Richiamato il Brigadiere dei Reali Carabinieri questi afferma che fu il teste quegli che gli mostrò la cinghia e gli fece rilevare il taglio fresco.
Francesco Gemmati. – I D’Aprile sono delle ottime persone, incapaci di far male a chicchessia.
E finalmente il Presidente ci manda a casa alle 16.

tratto e adattato dal Corriere delle Puglie del 31/05/1899, p. 3

Corriere delle Puglie del 01/06/1899, p. 3

Corriere Giudiziario
Corte di Assise di Bari
La causa D’Aprille

Udienza del 31 maggio 1899
Presidente Squitieri – giudici Soria e Noya – P.M. Cipollone – Cancelliere Dell’Uva.
La difesa rinunzia ai testi P. Pelini, sindaco di Santeramo, e cav. Alfredo Rossi. A richiesta del P.M. viene richiamato il teste a carico G. Surico alias Scannabugie, per rispondere circa il taglio della correggia del fucile, ed egli dice che trovò la correggia divisa in due pezzi, senza badare se era spezzata o tagliata. Però, prima di scendere nella grava, riscontrarono da sopra che la correggia era in due pezzi.
A domanda del giurato sig. Chieco, risponde che il terreno superiore alla grava era coltivato ma, per un piccolo circuito intorno, non era coltivata, nè lo era nella direzione opposta alla masseria D’Aprile.
Su domanda dell’avv. Ferrara, lo Scannabugie accetta che egli fu testimone a carico nel processo d’Assise per la morte del cav, Taranto e in quello Radicci, nei quali gl’imputati furono assolti.
Richiamasi, a istanza dello gasso giurato, il ragazzo Milano; dice che egli dormiva nel lamione della paglia, la cui porta era chiusa.
Su istanza dell’avv. Papalia, l’imputato Lillo dice di non conoscere o almeno di non aver fatto alcuna rivelazione ai condetenuti Maddalena e Colaninno.
Si riprende l’esame dei testimoni.
Comm. dott. Daniele Petrera. – E’ procugino del Donvito. Nel Settembre o ottobre 1897 fu pregato d’interporsi come paciere per indurre il Giangiacomo D’Aprile a non produrre querela contro il Giovanni Donvito, per un alterco avvenuto fra loro. Da essi non seppe il motivo dell’ alterco, ma nel paese seppe che il motivo era stato l’accusa fattasi dal Donvito di fare la famiglia D’Aprile da mezzana negli amori fra Adelaide Donvito e il Diomede.
Altra volta fu chiamato ad osservare la madre dei D’Aprile, inferma, che si era aggravata per agitazioni morali.
Ha conosciuto molto la famiglia D’Aprile e specialmente il Giangiacomo, e li ritiene persone onestissime. Il Giangiacomo era con lui in relazioni scientifiche per l’analisi delle acque.
Avv. Leonardo Prisciantelli. – Nella sera del 19 febbraio il Giangiacomo stette con lui in caffè sino allo ore 21, eppoi costui lo accompagnò a casa sua. – Anche egli s’interpose per pacificare il Giangiacomo col Donvito, e riuscì a farli incontrare, e a indurre il Donvito a fare le sue scuse. Il Giangiacomo inibì al Donvito di frequentare più la sua casa. Dal Giangiacomo seppe che l’alterco era avvenuto, perché il Donvito si era permesso dire che i D’Aprile favorissero gli amori dell’Adelaide col Diomede.
A domanda dell’on. Balenzano dice essere ottime persone i fratelli D’Aprile, i quali si mantenevano celibi per riparare ai dissesti finanziarii della loro famiglia.
Antonio Prisciantelli. – La sera del 19, sino alle ore 21, il Giangiacomo stette con lui e col fratello in caffè; egli si ritirò e fu accompagnato da Giangiacomo. Ritiene incapace il Giangiacomo di commettere un reato insidioso, perché è di carattere leale e franco, ed è uomo di onore.
Giovanni Buttiglione, proprietario. – Dal signor Leonardo Prisciantelli fu interessato a rappaciare il Donvito col Giangiacomo D’Aprile. Il Donvito si mostrò propenso al farlo: il D’Aprile pure, ma a patto che il Donvito non frequentasse più sua casa, e ciò perché il Donvito si era permesso accusare la sua famiglia di far da mezzana negli amori di sua sorella Adelaide.
Egli però, conoscendo che il Donvito benché ammogliato con quattro figli amoreggiava or con l’una or con l’altra ragazza, gli domandò se avesse tentato di amoreggiare con la Rosina D’Aprile: il Donvito giurò sulla vita dei suoi tigli, che giammai erasi permesso di volgere neanche uno sguardo alla Rosina. – I D’Aprile sono di ottima condotta, e si erano consacrati alla famiglia per restaurarne le condizioni finanziarie.
Giovanni Signorelli, ricevitore del registro. – Seppe che motivo dell’ alterco era stato il sospetto del Donvito, che i D’Aprile favorissero gli amori di sua sorella. Il 19 febbraio chiuse al Donvito un violino invitandolo ad una festa da ballo, ma il Donvito rispose: “Probabilmente me ne ve in campagna, perché mi diverto di più“. – Col Donvito c’era Stefano D’Aprile. – Nella sera dello stesso giorno il Giangiacomo stette con lui sino alle ore 22 e tre quarti, nella quale ora ai ritirò.
Ritiene il Giangiacomo incapace financo di pensare un delitto.
A domanda del giurato sig. Chieco, risponde che l’invito al ballo, che egli fece al Donvito, non era per le sera del sabato cioè del 19, ma per la sera susseguente della domenica, e fu tale invito che il Donvito disse di non poter accettare perché preferiva andare in campagna.
Dott. Candido Mariano. – Nel settembre 1897 curava la madre dei D’Aprile, inferma d’ileotifo, che un giorno era molto aggravata, e, per confidenze ricevute, assodò che l’aggravamento dipese dal fatto che erasi turbata per le percosse che Giovanni D’Aprile diede alla sorella ed alla madre.
Conosce i fratelli D’Aprile sono di ottima condotta, e si erano votati al celibato per fare economie e costituire un peculio dotale alla sorella Rosina.
Si richiama il teste sig. Buttiglione, il quale attesta che, a segua di ispezione e relazione del Giangiacomo D’Aprile, si constatò un vuoto di L. 1’300 nella gestione del consorzio stradale per la via Marchesano, i cui amministratori erano il comm. Petrera, Giuseppe Sciscio, Francesco Gemmati e Giuseppe Tangorra ed altri, i quali sono costretti a colmare tale, vuoto, perlocchè dovevano averne rancore pel Giangiacomo D’Aprile.
cav. Marcellino Cassano. Depone favorevolmente pel D’Aprile, e specialmente pel Giacomo che sa di carattere leale, aperto, da uomo d’onore. Il defunto padre dei d’Aprile lasciò un grande dissesto nel suo patrimonio, a cui i figli han cercato riparare con indefesso lavoro, facendo onore agli impegni paterni, i quali erano costituiti tutti da firme di avallo e non da debiti personalmente contratti dal defunto D’Aprile.
Avv. Filippo Taranto. – il Giovanni Donvito pativa di debolezza per le donne, nella voce pubblica ha saputo di parecchi fatti, di cui non crede parlare perchè toccherebbero l’onore di alcune famiglie. A domanda, risponde che nella sera del 19 febbraio seppe che il Giangiacomo era stato in casa sua, che il Giangiacomo nella sera seguente stette in una festa da ballo. Crede incapace di commettere reati: il 22 febbraio, questi gli disse, che correva voce di dover essere arrestato per la scomparsa del Donvito, mentre egli non ne sapeva nulla, ed ignorava anche che il Donvito, fosse, come si diceva, in amoreggiamento con sua sorella.
Si richiama il teste a carico Pellicoro, il quale dice che da sopra la grava vedevasi che la correggia del fucile era staccata in due pezzi,
L’avvocato Ferrara chiede che il Presidente assodi meglio la distanza fra gli ultimi appezzamenti della Masseria Minei e la grava, giacché crede che il capoguardia Pietrasanta non abbia dato informazioni esatte in proposito. – E qui sorge una contestazione tra l’imputato Giangiacomo D’Aprile (che dimostra la distanza essere di circa due chilometri e mezzo) e il Pietrasanta. Questi, dopo le indicazioni del Giangiacomo, finisce col dire che la distanza può variare tra un miglio e un miglio e mezzo. Al che il Giangiacomo dice: “E un miglio e mezzo equivale quasi a tre chilometri“.
Si passa alle perizie, e si chiama il Giovanni Milano che fece la perizia dei luoghi, e che è stato citato dalla parte civile. Si legge la perizia, e si mostrano ai giurati le piante topografiche nonché i rilievi dei luoghi.
A domanda del giurato del sig. Chieco, il perito Milano dice, che la distanza fra il ragazzo Milano e il punto dove si sarebbero incontrati Stefano e Donvito era di 89 metri, e aggiunge che il ragazzo avrebbe potuto udirli se parlavano a voce alta, e non li avrebbe potuto udire se a voce bassa.
Si passa alle perizie mediche. – Son presenti come periti a carico i dottori Vigoriti, Girardi e Castellaneta ed a discarico i dottori Zuccaro e capitano Guidetti: ad essi si dà lettura delle perizie allegate al processo. Dal verbale dell’autopsia risulterebbe che la morte del Donvito sarebbe avvenuta “per grave contusione addominale e quindi in seguito ad entero-peritonite, in concomitanza di iperemia meningo-cerebrale ed emoraggia sottomeningea“.
I periti Girardi e Castellaneta. dopo aver confermato le rispettive perizie, danno alcuni nuovi chiarimenti chiesti dal dottor Vigoriti, il quale, in risposta a quesito della difesa, risponde che le lesioni che produssero in tempo brevissimo la morte furono quelle al capo; che le lesioni addominali, anche gravissime, dovettero avvenir dopo. Il suddetto brevissimo tempo ha potuto essere di una decina di minuti. La flogosi addominale la ritiene iniziale soltanto.
ll perito Castellaneta dice di essere perfettamente d’accordo col dottor Vigoriti, ma l’on. Balenzano gli dà sulla voce, notando che egli nella perizia scritta disse che il Donvito dovette spirare dopo qualche ora. – Il dott. Castellaneta dice che per qualche ora egli voleva dire 40 minuti (qui la difesa si abbandona con ilarità, a commenti… grammaticali). Aggiunge che egli non intese di dare precedenza alle une o alle altre lesioni.
Il dott. Girardi è pienamente d’accordo col collega Vigoriti, anche perché le lesioni esternamente non accennavano a processo flogistico, e perciò crede che la morte avvenne in brevissimo tempo.
Il capitano medico Guidetti, facendo dei rilievi sulle riscontrate note caratteristiche delle lesioni, è di parere che – standosi alle perizie scritte – la morte del Donvito non poteva avvenire che in un periodo almeno di 24 ore; ma, se si spostano i dati delle perizie scritte e si aggiungano in dibattimento altre note caratteristiche, allora anche si sposta il parere medico-legale.
Il dottor Zuccaro fa notare che il verbale di autopsia mostra molte deficienze, e che il dottor Castellaneta ha aggiunto particolari che non risultano dal verbale, pure alla distanza di un anno. E, mentre rl dottor Castellaneta avrebbe detto oggi che vasta fosse l’emoraggia entocranica, invece risulta il contrario dal verbale di autopsia. Secondo lui, è probabile che la morte sia avvenuta dopo parecchie ed anche 24 ore, tanto più che il cadavere fu trovato in istato di rigidità e con nessun carattere di putrefazione.
E ciò ritiene anche in rapporto alle lesioni al capo, ed anche tenendo calcolo dei particolari nuovi aggiunti dal dottor Castellaneta. – A domanda del presidente, risponde che, date le note specificate nel verbale di autopsia, il Donvito dovè vivere tra un minimo di 12 o 24 ore ed un massimo di tre giorni. Se poi si deve tener conto dei particolari aggiunti oggi, il Donvito dov’è vivere almeno sei ore circa.
Sorgono contestazioni brillanti fra i dottori Vigoriti e Zuccaro. che restano fermi nei rispettivi giudizii.
Si richiama, su istanza dell’avv. Ferrara, il teste cav. Marcellino Cassano; il quale, essendo stato più volte sindaco di Gioa, attesta che il Pietro Sabato è di piuttosto buona condotta, e che mai lo ha inteso denominare “Re della Grava“, ma che ciò lo ha letto soltanto sui resoconti processuali del Corriere delle Puglie.
E cosi si é esaurito l’esame testimoniale. Domani non c’è udienza: posdomani cominceremo le arringhe.

tratto e adattato dal Corriere delle Puglie del 01/06/1899, p. 3

Corriere delle Puglie del 07/06/1899, p. 3

Corriere Giudiziario
Corte di Assise di Bari
La causa D’Aprille

Udienza del 6 giugno 1899
[…] Ricorda la permanenza del Donvito a Santeramo in cui si ripetè la scena della Samaritana al ponte. Il Donvito insidiava l’onore delle donne che si recavano ad attingere acqua nel convento che ospitava il Donvito.

[…] L’epistolario amoroso del Donvito fu scoverto il 12 febbraio dalla madre dei D’Aprile, ma sappiamo che costei, per la gran tema che ne avessero avuto notizia i figli, ebbe la più ansiosa premura di bruciare tutte le lettere. […]

tratto e adattato dal Corriere delle Puglie del 07/06/1899, p. 3

Corriere delle Puglie del 11/06/1899, p. 3

Corriere Giudiziario
Corte di Assise di Bari
La causa D’Aprille

Udienza del 10 giugno 1899
Siamo all’epilogo di questo grande dramma giudiziario. La vasta aula della corte di assise è oggi affollatissima di pubblico eletto, c’è gente dappertutto, attorno ai banchi dell la ruota della corte, dovunque. La tribuna pubblica presenta il gaio spettacolo di uno straordinario numero di elette ed eleganti signore. […]

In una sua poesia il Donvito così scriveva alla Rosina:

Per un bacio o per due,
per tre, o quattro, o cento
niente perde la donna,
e l’uomo resta… contento!

L’amore che ti porto
me lo son confessato,
e il prete m’ha risposto,
ch’esso… non è peccato!

Il verdetto e la sentenza di assoluzione

I giurati col loro verdetto hanno ritenuto il solo Giuseppe D’Aprile cooperatore dell’omicidio ma irresponsabile per totale vizio di mente, ed hanno poi risposto negativamente del tutto per il Giangiacomo D’Aprile, per il Pietro Sabato e pel Tommaso Lillo.
A seguito di tale verdetto il Presidente ha dichiarato assolti tutti i quattro imputati, rimettendoli immediatamente in libertà.
All’annunzio della sentenza un formidabile applauso, fino allora stentatamente represso dal Presidente, è scoppiato nella folla innumerevole ed anche nella tribuna delle signore.
Gl’imputati assolti si son fatti scendere di nascosto da una scala diversa, per sottrarli all’entusiasmo festoso della popolazione, che evidentemente era nella grande maggioranza a loro favorevole.

tratto e adattato dal Corriere delle Puglie del 11/06/1899, p. 3

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Fonti consultate

Corriere delle Puglie del 24/02/1898, p. 2
Corriere delle Puglie del 27/02/1898, p. 2
Corriere delle Puglie del 26/05/1899, p. 3
Corriere delle Puglie del 27/05/1899, p. 3
Corriere delle Puglie del 31/05/1899, p. 3
Corriere delle Puglie del 01/06/1899, p. 3
Corriere delle Puglie del 07/06/1899, p. 3
Corriere delle Puglie del 11/06/1899, p. 3
Francesco Netti, un intellettuale del Sud, Christine Farese Sperken, Pinacoteca Provinciale, Bari, 1980

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