La Sommossa Popolare del 1809

Contrariamente a quello che ci si può immaginare Santeramo non è stata poi così pacifica e monotona. Oltre duecento anni fa una figura importante era quella di Giuseppe Lazazzera, che fu Sindaco di Santeramo prima del 1809. Dopo la proclamazione della Repubblica Napoletana del 1799 cercò di spiegare ai santermani i concetti di libertà e uguaglianza che la accompagnavano. Ma a quest’ideologia si contrapponeva la realtà fatta di tasse che gravavano sui cittadini.
Il 19 marzo 1809, quando il sindaco di Santeramo era Erasmo Petrelli, durante l’occupazione francese, mentre Giuseppe Lazazzera era capitano ed esattore della contribuzione fondiaria, venne trucidato insieme a sua moglie, Rosa Bresnaider, durante una sommossa popolare che contrapponeva i contadini ai proprietari. Gioacchino Murat, Re di Napoli, dopo aver riportato le sue preoccupazioni per l’accaduto a Napoleone Bonaparte, ordinò al generale Giacomo Filippo Ottavi di recarsi a Santeramo, formare una commissione militare e reprimere la sommossa.

Famiglia Lazazzera - Bresnaider
Famiglia Lazazzera – Bresnaider

La famiglia Bresnaider era originaria di Acquaviva. Negli anni successivi il giovane figlio Giovanni Lazazzera si trasferì a Castellaneta dove si sposò due volte ed ebbe almeno undici figli. Queste sono le parole usate da Antonio Lucarelli nel 1951 a proposito degli eventi tumultuosi del 1809:

La Puglia nel Risorgimento (storia documentata): Dalla rivoluzione del 1799 alla restaurazione del 1815, Antonio Lucarelli, 1951, p. 191-194

La fiamma della rivolta prorompe all’inizio di primavera nella terra di Bari, serpeggia via via in Terra d’Otranto e Capitanata, e divampa durante l’estate per tutta la regione.
Il 5 marzo 1809 si leva a tumulto Terlizzi, fra le più colte e popolose città del Barese: frotte di campagnoli, eccitati dal suono delle campane a stormo, percorrono le vie, imprecando ai “galantuomini”, sostenitori del regime francese, e minacciano stragi e rovine. La sommossa è quivi domata; ma si riaccende di lì a pochi giorni in altri Comuni della medesima provincia, e in particolar modo a Santeramo, ove la plebe trascorre a nefandi eccessi. L’istruttoria, che ho ritrovata nell’Archivio Provinciale di Trani, altra preziosa fonte di studio, e le lettere e i documenti murattiani pubblicati dal francese Paul Jules Joseph Le Brethon avvivano di chiare luci il tragico episodio.

Era il 19 marzo 1809, ricorrenza di S. Giuseppe; e già fra balli e simposii fiammeggiavano sul tramonto i tradizionali falò o “focaroni”, barbarica usanza non ancora dismessa, allorchè una schiera di contadini e mezzadri, muniti di sciabole, schioppi, zappe, accette e randelli (solite armi del furor popolare) si aduna fuor dell’abitato e prepara l’invasione della città. Fomentatori del tumulto sono i familiari di quel tristo Francesco Soria, che nel 1799 si aggirava fra i nostri paesi con parecchie migliaia di sanfedisti e che in quei giorni trovavasi confinato a Compiano nelle Alpi. Costoro avevano diffuso nel popolo le voci più lusinghiere: che Gioacchino Murat, cioè, fosse già imbarcato su navi inglesi; che Ferdinando rientrava nei suoi dominii continentali; che un corpo di 21’000 uomini, condotto da Filippo Stat (sic), il quale avanzava dalle Calabrie verso la Puglia e che lo stesso Francesco Soria tornava dall’esilio per insediare nelle provincie e nei Comuni gli antichi reggitori. Con tali dicerie i borbonici infondevano nei popolani la sicurezza del trionfo e la speranza dei futuri guiderdoni.

Sbigottiti dal bieco atteggiamento dei “villani”, il Comandante della Guardia Civica, ch’era pur l’esattore dei contributi fondiari, il Giudice di Pace e le altre autorità inviano quali messi ai fuoriusciti due pubblici notari allo scopo di esplorarne le intenzioni e placarne le ire; ma ne riportano fiera risposta: “Non è più tempo di soffrire tante imposizioni e gravezze, e deve finire una volta!“. Nè oseremmo dar torto a quegli sciagurati; i quali, come riferiva il giudice istruttore, dovevano sostenere la vita con la grama ed incerta mercede di sessanta centesimi al giorno; e, per giunta, eran di fatti segno a sequestri e sanguinosi oltraggi da parte degli agenti fiscali: avevano pur detto costoro “Vendete l’onore delle vostre figlie e pagate!“.

Accesi quindi da brama di vendetta, marciano a suon di tamburo sul paese natio, ove entrano per la Porta S. Domenico, gridando “all’armi!” ed incitando alla rivolta i compagni di lavoro. Saccheggiano la casa dei Netti, illustri patrioti, degli Amenduni, del Giudice di Pace; assaltano il quartiere della Civica [Guardia Nazionale, NdR] e, impadronitisi delle armi ivi depositate fanno orribile scempio del comandante Giuseppe Lazazzera e della consorte Rosa Bresnaider, anche lei d’insigne casato liberale. I “galantuomini”, presi da spavento, fuggono via col favore delle tenebre, e lasciano la città in balia della turba, briaca della facile vittoria. Al mattino seguente, i caporioni della sommossa sbarrano le porte del paese, ponendovi a custodia le loro fide sentinelle, e con pubblico bando impediscono l’uscita dei campagnoli, affinchè tutti concorrano, armata mano a sostenere la stabilita anarchia. Senonchè, codesto simulacro di governo proletario, come tutti i governi che allora sorgevano dai popolari trambusti, fu breve ed effimero: affogò nella bruta violenza con la stessa rapidità con cui dalla bruta violenza era balzato.

La mattina del 22 marzo 1809 appaiono sulla via di Matera alcuni manipoli di fanteria francesi; e sopraggiunge, di lì a non molto, il generale Giacomo Filippo Ottavi: a tale vista l’atterrita ciurma si disperde nei campi e nelle vicine città. Si erge all’istante un lugubre palco; e sotto la presidenza del colonnello Luigi Amato s’insedia una Commissione Militare, che emana sentenze di morte con rapidi giudizi. Triste bilancio: tre afforcati nei pressi dell’ufficio esattoriale; otto fucilati nella pubblica piazza di Santeramo; cinque catturati e giustiziati nella finitima Acquaviva; parecchi spenti nelle prigioni. E come se ciò non bastasse, sulla misera cittadina fu imposta una taglia di 25’000 ducati.

Adempivasi così l’ordine, che Gioacchino Murat aveva trasmesso all’Ottavi per mezzo di Guglielmo Pepe, allora capo di battaglione ed ufficiale d’ordinanza di Sua Maestà: “Un grand exemple en impose à l’avenir à ceux de mes autres sujets, qui pourraient etre excités a les imiter“.

Il comandante còrso, il quale non aveva davvero bisogno d’incitamenti che stimolassero il suo naturale rigore, sperava che queste crudeli esecuzioni avrebbero sgominato le popolazioni della Puglia, inducendole a miti consigli. Ma fu vana illusione: non trascorse un mese, e la rivolta tornò ad infierire proprio in quella provincia salentina ch’era affidata alla sua particolare vigilanza.

Antonio Lucarelli

tratto e adattato da La Puglia nel Risorgimento (storia documentata): Dalla rivoluzione del 1799 alla restaurazione del 1815Antonio Lucarelli, 1951, p. 191-194

Come detto il 19 marzo 1809, che era una domenica, i rivoltosi spinti dalla tassazione opprimente, saccheggiarono le case dei Netti, degli Amenduni, del Giudice di Pace, uccisero i coniugi liberali Giuseppe Lazazzera e Rosa Bresnaider, imposero taglie e si lasciarono andare ad ogni violenza. I possidenti in preda al terrore fuggirono di notte, mentre i rivoltosi sbarrarono le porte della città per impedire ai contadini di uscire, affinchè tutti armati accorressero a sostenere l’anarchia. La sommossa fu poi placata nel sangue dal generale Ottavi. Tra il 30 marzo 1809 e il 10 aprile 1809, oltre venti persone di Santeramo furono impiccate o fucilate dall’esercito occupante. I cinque catturati ad Acquaviva erano i fratelli Difonzo, e furono tutti fucilati. Ho provato a cercare i Difonzo nel registro degli Atti di Morte di Acquaviva senza trovarli, probabilmente i loro nomi sono stati riportati nei registri di Santeramo, non accessibili.

Casualmente, in un atto di matrimonio del 1828, ho individuato un riferimento ad un Andrea Difonzo deceduto ad Acquaviva il 9 aprile 1809.

Inoltre sono a conoscenza che il padre dei fratelli Difonzo fu imprigionato e condannato a morte. Nello stesso atto di matrimonio è indicato il nome del padre di Andrea, che si chiamava Tommaso Difonzo, e risulta morto il 2 novembre 1809, non in una città qualsiasi, ma a Trani, che era proprio la sede del tribunale penale.

E su Santeramo i francesi posero una taglia di 25’000 ducati.

Come riportato da Francesco Alberto Di Leone nel libro “Santeramo una volta“, l’attuale Largo Lazazzara che si trova lungo Via Roma, è da riferirsi proprio a Giuseppe Lazazzera.

Fonti consultate

La Puglia nel Risorgimento (storia documentata): Dalla rivoluzione del 1799 alla restaurazione del 1815Antonio Lucarelli, 1951, p. 191-194
Storia di Puglia, Volume 5Saverio La Sorsa, Tip. Levante, 1960, p. 217
Antonio Mirabella e le sommosse popolari, Antonio Lucarelli, p.11
Giornata del ricordo – 25.000 ducati, Giusy De Vivo, SanteramoWeb
Giurisprudenza civile della Corte suprema di giustizia di Napoli, Stabilimento tipografico del cav. Gaetano Nobile, 1863, p.212
Fatti, personaggi e luoghi dell’Unità d’Italia a Santeramo in Colle (1799-1899), Bando del concorso per scuole, p. 4
Genealogia delle famiglie Maldarizzi-Marsico e associati, p. 330
Santeramo una volta, Francesco Alberto Di Leone, Santeramo in Colle, 2003, p. 119

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